Il tempo di una vita

Per tutta la durata dell’esame lo sguardo del piccolo uomo aveva spaziato più volte l’orizzonte: tutto quello che i suoi occhi potevano raggiungere, oltrepassando le generose vetrate dell’aula, in quel Giugno fiabesco del 1989. Mario Lino, 14 anni appena suonati, aveva parlato in modo corretto, senza apparenti strafalcioni (‘Giolitti era di sinistra, giusto? No forse di centro…’). Praticamente si sentiva il diploma di terza media in tasca.
“Bene signorino – disse al dunque la sempre ieratica Suor Leontina – direi di chiudere con la domanda che abbiamo posto a tutti i nostri alunni che si apprestano a lasciarci…”. Nell’aria crebbe un’improvvisa quanto finta commozione tra i docenti.
Neanche il tempo di inghiottire un po’ di saliva generata dalla tensione, che ecco piombare sul paffutello esaminando la domanda fatale: cosa vuoi fare da grande, quale mestiere sogni di intraprendere? Lungo sospiro di sollievo, Mario Lino sapeva anche questa! Accennando appena un sorriso col lato destro della bocca disse sfrontatamente:
“Il giornalista… – e poi puntualizzando meglio – il giornalista sportivo!”. Lo sguardo di Suor Leontina parve intonarsi al velo nero che l’avvolgeva, finché spaesato, raggiunse l’insegnante di Italiano, poi quello di Matematica, ed infine la segretaria tuttofare Suor Dolores. Che intervenne rompendo l’imbarazzo generale: “Signorino – con la ultima “O” molto aperta, figlia legittima di un verace accento pugliese – forse hai compreso male la domanda… Chiedeva la Preside cosa vuoi fare da grande, che lavoro… insomma come ti guadagnerai da vivere?”.

Due donne in superata età da marito erano impegnate a lucidare le imponenti alzate di marmo che sostenevano la grande scala principale. Nella sede della redazione di Largo Lombardi, cuore di Via del Corso a Roma, regnava ancora il silenzio, sebbene fossero da poco passate le 9 del mattino. Un quotidiano aveva i suoi strani tempi, irregolari quanto fascinosi, deprimenti quanto adrenalinici. Mai normali. Mario Lino era sempre tra i primi ad arrivare: dalla provincia un lungo viaggio servendosi di svariati e mal funzionanti mezzi pubblici. La fricassea di immagini, persone e storie che gli facevano da cornice ogni mattina lo aiutavano a immagazzinare idee, a sviluppare sogni, da tramutare in parole nei suoi scritti. Era da qualche mese impastoiato nelle sempreverdi paludi della carta stampata, poco più che ventenne, collaboratore occasionale quanto volete, ma pur sempre una firma in calce a parole. E a lui questo piaceva da matti. Inspiegabile davvero.
Nella redazione non aveva una sua scrivania, la cambiava di volta in volta a seconda delle disponibilità. Ora la sua penna era richiesta in “Cronaca”, non certo il suo sogno. Ma era pur sempre un inizio e gli era sembrato già un passo avanti rispetto a “Cultura e Spettacoli” che aveva dovuto raccontare nei primissimi giorni di apprendistato.
La sua redattrice, bravissima giornalista avviata a migliori scenari professionali, aveva parlato bene di lui al Direttore del quotidiano: ogni articolo non risultava mai banale, ogni argomento era sempre ben supportato da più punti di vista, sia che si parlasse di David Bowie che del più scarso guitto di quartiere. Così era finito per infoltire l’esigua schiera dei cronisti. Quella mattina aveva trovato la copia del giornale all’edicola del metrò di Piazza di Spagna e nel breve tragitto a piedi che lo conduceva ogni giorno in redazione, aveva avuto modo di rileggere il suo articolo nell’edizione precedente: un fantastico pezzo celebrativo sul nuovo modulo che il Comune di Roma aveva pensato di fornire agli edicolanti del Centro. Un “gabbiotto” che avrebbe avvicinato la Capitale alle capitali di mezza Europa. Un degno incontro tra il moderno dinamismo di fine secolo e il doveroso richiamo ai contorni “art nouveau” della “Belle Epoque” parigina! Il 1900 d’altro canto volgeva al termine e dietro l’angolo ci sarebbe stato il futuro da scrivere. E tante, tantissime altre stronzate simili.
“Ho fatto bene a mandarti a Piazza Navona ieri eh?!” – lo apostrofò il suo redattore con sarcasmo.
“Oh, direi di sì, è stato interessante davvero – rispose garbatamente Mario Lino, ripensando al sole a picco delle due di pomeriggio nella più calda giornata feriale di un Maggio tra i più cocenti degli ultimi mille anni.
“Ottimo pezzo, mio caro – proseguì il redattore sempre più convinto – davvero brillante l’idea dell’astronave Ufo piombata nel mezzo della città per insegnare il futuro agli edicolanti!”.
Seguirono risa cariche di pomposa superbia. “Mi ha già chiamato l’Assessorato, l’articolo è stato molto gradito e apprezzato!”.
Lo credo, pensò Mario Lino, era presente solo la sua penna tra la carta stampata e un free lance più sfigato di lui con una vecchia telecamera a spalla. Non era un segreto, quella gavetta gli stava andando giù male. A nulla era valsa quella serata di qualche settimana prima, quando il solido Urbani, caporedattore sportivo e ottima mezzala di movimento nelle sfide di calcetto, lo aveva arpionato sulla porta della redazione, disperato poiché non aveva nessuno che gli coprisse un quarto di finale di basket della Virtus Roma. La pallacanestro era pane per Mario Lino, l’aveva praticata agonisticamente ed si dilettava ancora ad allenare giovani promesse nella palestra parrocchiale del suo paese. Insomma, avrebbe potuto tranquillamente mangiare polenta e bere rosso con Dino Meneghin. Quella sera aveva quasi sperato in un accredito al Palazzone dell’Eur, ma a quella richiesta Urbani lo riportò alla realtà passandogli la sua fidatissima radiolina con le cuffiette.
“Ecco il tuo accredito cucciolo. Puoi usare il pc della mia scrivania se vuoi, mentre io vado a impostare la pagina coi grafici. Devo cercare una bella foto del coach Bianchini”.
Sebbene di quella gara avesse scritto vita morte e miracoli, quasi fidandosi più dei rumori in sottofondo dal campo che delle statistiche o del radio cronista, e lo stesso Urbani ne avesse intravisto le qualità di ottimo cervello scrivente, il passaggio allo Sport era ancora utopia e tale sarebbe rimasto per parecchio ancora. Così Mario Lino cercava certezze nei tanti colleghi e colleghe che sinceri gli indicavano una brillante carriera. Cercava anche conforto nelle calde parole dell’amministratore della casa editrice, il quale lo rassicurava ogni volta con voce più suadente che l’azienda stava regolarmente versando gli importi dovuti all’Ordine dei Giornalisti per gli articoli realizzati dai collaboratori occasionali. L’Eldorado per ogni imbrattacarte sognatore: il tesserino da pubblicista! Quel tipo era così convincente, che il promettente cronista ci sputava l’anima sulle tastiere, perché tutto sarebbe servito un giorno a diventare realtà. Certo, dal redattore di Cronaca per ora gli arrivavano solo le veline più sciape, i lanci più insulsi, le boutade più inverosimili. Ma sperava di avere l’occasione giusta, prima o poi. Come quella notizia, pesantissima, battuta dall’Ansa un paio di mesi prima. Era uscita lentamente dalla stampante ad aghi e certificava nero su bianco il martirio di una sua coetanea dal nome dolce e musicalmente delicato: Marta Russo. Avrebbe tanto voluto prendere lui l’argomento sotto la sua penna. Marta, tra i viali dell’Universtià La Sapienza, aveva immolato inconsapevolmente la sua giovane vita sull’altare della stupidità umana. Gli stessi viali che Mario Lino aveva da qualche mese iniziato a trascurare per la carta stampata. Scienze Politiche poteva pure aspettare, c’era tempo. La vita no. A Marta questo, purtroppo, non lo avrebbe più potuto spiegare nessuno.

La lunga salita del borgo sabino non lo spaventava. Non ancora, diamine. Un giovanotto che ancora non ha raggiunto la maggior età non poteva temerla. Le falcate delle sue gambe lunghe coprirono sempre più veloci gli ultimi ciottoli, anche se alle Superga beige che indossava quegli scomposti e callosi sassi medievali non piacevano affatto. Agosto piangeva ancora afa e muffa, sembrava d’ingoiare carbone liquido, tanta era la calura. Eppure la sera era vicina più del mezzodì. Wilson lo accolse sui consunti scalini in pietra, all’ombra del platano che fronteggiava la sua abitazione. Un grosso gatto rosso dai baffi corti e dai morbidi polpastrelli, lo affiancava appollaiato sotto le gambe, suonando fusa dolci ma rumorose.
“Ecco il nostro sognatore – disse l’esile uomo dalla sua privilegiata postazione – Sei Mario Lino vero?”. Era verissimo.
Quella visita era stata organizzata dal papà di Mario Lino, conoscente se non mezzo imparentato con il mitico Wilson, giornalista dalle mille vite che aveva calcato con fama e riconoscimenti le rotative di mezzo mondo. Nonché del Messaggero, storico quotidiano romano. Se uno avesse mai sognato di diventare un giornalista, doveva parlare con Wilson.
“Entriamo, ti offro un’orzata” – disse l’anziano lasciando gli scalini. Il gatto non fu del tutto concorde.
“Vedi, scrivere è il sogno di tutti. Ce lo insegnano fin dall’asilo, mi sembra giusto che poi si voglia continuare a scrivere per sempre – iniziò la conversazione Wilson mentre si destreggiava tra la bianca bottiglia di orzata Fabbri e due cubetti di ghiaccio già sofferenti per la lontananza del freezer. “Beh, sì. In effetti io mi sono permesso di…”.
“Dico, basta sapere a cosa vai incontro – lo interruppe l’uomo scrutandolo dai suoi occhi a fessura – e io sarò ben felice di darti il mio punto di vista. Scrivere è la cosa più bella, naturale, completa, che possa fare un uomo per vivere. Ti farà viaggiare, conoscere lingue e persone fantastiche di paesi lontanissimi”.
Passò un bicchiere tozzo e verde scuro al ragazzo. E iniziò a riempire il suo, ma la Fabbri era agli sgoccioli.
“Jamy!!! Jamyyy!!! – chiamò a gran voce Wilson – Bring me some more syrup ok!? Com’on boy!”. Poi si volse a Mario Lino. “Ho finito la scorta, ho urlato a quello sfaticato di Giammario di andare a comprarne altra. E’ il mio quarto figlio: mio e della mia terza moglie, una focosa meticcia del Commonwealth, credo. Mi ha lasciato da 10 anni con questo ragazzaccio. Ma torniamo a noi”. Mario Lino non mosse ciglio, provò solo compassione per quel povero ragazzino. Intanto con gli occhi aveva viaggiato nel soggiorno di quella casa: fotografie, cartine, disegni e pitture di forme stranissime, pagine di giornali incorniciate, vignette, riviste, libri, fumetti addossati alle pareti e sulle scale, ovunque si leggevano parole, buone o cattive che fossero, erano parole dal mondo.
“Dicevo – riprese Wilson schioccando un poco la lingua al palato per assaporare la bibita – il potere è nelle tue mani. Quando scrivi, sai che tutti ti dovranno leggere prima o poi, tutti dovranno sapere cosa ne pensi del mondo, della vita, dell’amore, della morte. Hai una porta spazio-temporale per rimanere immortale. Ecco cosa vuol dire scrivere. Tu hai già qualcosa di pronto? Hai scritto o stai scrivendo qualcosa?”.
La domanda non colse Mario Lino di sorpresa: ma gli sembrava ora che a Wilson fosse cresciuto un velo nero sul capo, come a Suor Leontina! Rispose.
“Ho scritto un paio di brevi racconti e vorrei poi tenere un diario dell’ultimo anno di liceo per poi farne un ricordo da regalare ai miei compagni.” Ottimo inizio, gli disse Wilson.
“Portami i tuoi racconti allora, li voglio leggere. Se no come faccio a darti l’ok per diventare un collega! – rise di cuore.
Rise anche Mario Lino, che anche qui sentiva già d’aver superato l’esame. “Ultima cosa – riprese l’uomo, riaccogliendo il micione sulle ginocchia abbronzate ma logore di fatica – temo sia la più importante. Scrivere ti darà mille gioie, forse la fama, la gloria, la ricchezza. Tra le gioie metto anche le emozioni negative, le batoste, i pianti, i tradimenti. Anche quelle sono gioie, credimi. Ecco, in cambio di tutto questo ti verrà chiesta una cosa, una cosa sola… il tuo tempo. Tutto, ovviamente”. Wilson si fermò col bicchiere a mezz’asta. A Mario Lino la pausa non piacque. E attese la fine della frase.
“Tutto il tempo della tua vita in cambio!”.

Giugno era ormai inoltrato, Roma era sempre la capitale indiscussa del caldo e del caos. Tuttavia la gavetta al giornale non aveva ancora scalfito le aspirazioni di scrittore del giovanotto di provincia. Certo qualche imprevisto c’era stato, qualche smottamento Mario Lino lo aveva avvertito sotto al piedistallo della gloria. Aveva seguito ad esempio una pruriginosa denuncia di un sindacato contro una potente lobby industriale. Era chiaramente un argomento scottante, tanto che il suo redattore (per fare un favore a chissà chi) lo aveva dirottato su quel campo minato armandolo solo di un chilometrico fax replicante vecchissime baruffe e presunte denunce, mai seguite da processi reali. Ci aveva lavorato per giorni, anche a ore impensabili, contattando persone pure un po’ scomode, salvo poi accorgersi che nell’ultima riga dell’ultima pagina del poco leggibile fax, stampato su carta termica, regnava una severa postilla legale che obbligava le parti a non pubblicare alcuna notizia prima di un eventuale approdo in tribunale. Il redattore non lo ringraziò nemmeno, nonostante avesse salvato le chiappe a lui e a buona parte dei suoi editori. Il tempo aveva risolto ogni cosa e ora aspettava con ansia la fine del mese per avere qualche giorno di riposo. L’estate in provincia lo avrebbe rilassato come sempre, avrebbe potuto scrivere i suoi racconti e pensare definitivamente a che altezza piazzare l’asticella delle proprie ambizioni. Quella mattina era arrivato più tardi del solito in redazione, colpa di scioperi improvvisi del trasporto pubblico. Il giornale quasi sembrava vivo, così popolato e laborioso. Andò a salutare direttore, colleghi e redattori. Anche il suo, in Cronaca, sembrava aspettarlo con palpitazione. “Oh, eccoti finalmente! – disse a Mario Lino – oggi che mi servivi subito, sei arrivato così in ritardo!”.
“Chiedo scusa, purtroppo un doppio sciopero selvaggio mi ha fatto perdere…”. “Sìssì vabbè – tagliò corto il superiore – so tutto, sono un redattore di cronaca no? Dunque, mi servi al Campidoglio, Sala Protomoteca tra mezz’ora. Mi ha scritto l’Assessorato allo Sport. Ce la dovresti fare ad arrivare in tempo no? Semmai fatti prestare un motorino da un collega.”
Campidoglio voleva dire Municipio. Qualche conferenza stampa? Assessorato allo Sport voleva dire pane per i suoi denti, finalmente qualche evento di spessore, pensò Mario Lino. C’era una conferenza stampa infatti, per presentare i prossimi Giochi Olimpici per sordomuti. Roma li avrebbe ospitati per la prima volta e il Campidoglio era stato scelto come vetrina divulgativa. La sala Protomoteca non l’aveva mai vista dal vivo il nostro cronista, gli avevano raccontato di una specie di piccolo museo coi busti dei più grandi italiani di tutti i tempi. Non era il massimo. Ma era come sempre qualcosa da raccontare e lui lo avrebbe fatto diventare il massimo, con le sue forbite parabole, le sue sarcastiche ironie se necessarie e qualche bella parola sdolcinata in onore della disabilità in generale. Il pezzo era praticamente già pronto. Decise di organizzarsi. Mancava poco e la sede del Comune sarebbe stata impossibile da raggiungere con un taxi per via di quel dannato sciopero. Motorino? Neanche a parlarne, non gli erano simpatiche le due ruote. Rimanevano tacchi e suole, fortunatamente la distanza non era molta e con un buon passo in dieci o quindici minuti sarebbe stato a Piazza Venezia.
Armò la sua cartella con blocco note, penne in due o tre unità, la copia del giornale appena uscito su cui firmava i suoi articoli (molti altri li mascherava con pseudonimi) e il fax invito alla conferenza stampa che valeva come credenziale di accredito. Aveva da poco iniziato lo slalom lungo Via del Corso, tra veicoli e motocicli impazziti nel traffico: voleva evitare quel puzzo bestiale di petrolio bruciato. Si ricordò che in una via laterale si trovava la sede dell’Ordine dei Giornalisti. L’occhiata all’orologio convinse Mario Lino a deviare il tragitto, avrebbe fatto in tempo lo stesso ad arrivare alla conferenza. Era curioso di vedere la casa dei suoi sogni, non ci era mai stato prima d’ora. Due o tre piccole vie laterali custodite da alti caseggiati padronali e la facciata del palazzo con la targa bronzea recitante “Ordine dei Giornalisti di Roma e del Lazio” erano lì a dargli il benvenuto. Mario Lino entrò.
“No, qui non risulta proprio niente… – disse l’impiegato dal fondo della sua scrivania bancone. “Mi puoi ripetere il nome della testata? Oppure va bene anche l’editore eh…”.
Lo scrittore sognatore ripeté macchinoso la nenia. Increspando nel tono sia il nome del giornale che dell’editore con una leggera vena di arrabbiatura. Stessa risposta: nulla. Non c’era traccia dei famosi versamenti, la testata era formalmente presente nei loro registri ma l’editore pareva un nome di fantasia più che un imprenditore della carta stampata. Dunque mesi e mesi di fatiche sprecate. Parole in fumo, vergate a piombo su fragili lenzuoli di carta. Ecco cosa sarebbero diventati i suoi articoli, carta da macero. Uscì dalla sede con la coda tra le gambe, la testa china. Addio sogni di gloria. Continuare a sognare? E per quanto ancora? Mandare tutto alle ortiche? Le domande si moltiplicavano nella testa di Mario Lino, ogni fotogramma sembrava riapparire davanti ai suoi occhi: dal sarcasmo della Suora-Preside, agli avvertimenti dell’anziano Wilson, giornalista senza più radici né famiglia. Dai complimenti dei colleghi (sinceri) agli incoraggiamenti dei suoi amici (veri). Questo film lo accompagnò fino in Campidoglio: era deciso a fare quest’ultima dolorosa recita sul gran palco del giornalismo. Avrebbe scritto ancora con poesia, con partecipazione e sentimento, di come un atleta sordomuto possa gridare al mondo la sua gioia dopo una vittoria sportiva. Anche senza emettere suoni. Salì affannosamente l’ultima scalinata che da Piazza del Campidoglio porta agli uffici del Sindaco. Era sudato ed accalorato. Un addetto lo guardò entrare nell’androne, chiedendogli subito chi fosse e cosa volesse. Nome, cognome, testata. Conferenza stampa dei Giochi per Sordomuti, Protomoteca. Agli occhi sbarrati e interrogativi del tale, Mario Lino avvampò un pochino e gridò: LA SALA DEI BUSTI! L’ometto si riprese e gliela indicò senza muovere di un centimetro il sedere dalla seggiola. Tamponando le gocce di sudore con un fazzoletto si avviò in preda a sconforti smisurati. Un vigile in alta uniforme era ora ad attenderlo davanti alla porta della Sala. “Mi spiace – gli disse – la conferenza è stata rimandata a oggi pomeriggio alle due e mezza. La Sala è stata richiesta dal sindaco per un impegno improvviso”. Ecco fatto, chiusura in bellezza. Passò oltre, ringraziandolo. E s’avvicinò alla seconda porta di entrata alla sala. Era socchiusa, sbirciò e vide. La cronaca lo aveva allenato ormai. Voi giornalisti, gli avevano insegnato, dovete guardare oltre, dovete scavare sotto e non fermarvi alla prima apparenza! C’era il Sindaco nella Sala Protomoteca. Lo riconobbe in doppio petto scuro e scarpe lucide, abbronzato come sempre e decisamente a suo agio mentre indicava a due signori anziani (‘avranno l’età dei miei genitori’ pensò Mario Lino) le bellezze della Sala. Accarezzava il busto di Leonardo, godeva della mascella scolpita di Dante, decantava i dipinti che ornavano le pareti, per arrivare poi alla grande finestra. Che, aperta, offriva agli occhi dei presenti lo spettacolo storico e archeologico più ricco di sempre: i Fori Imperiali. A portata di mano. I due signori, probabilmente moglie e marito da come si tenevano per mano, sembravano deliziati da tanto splendore. Non eleganti ma dignitosi, quasi impauriti da tanta magnificenza. Magari quella visita privata, anzi privatissima, per la quale avevano scombussolato il lavoro e gli impegni di decine di persone, gli sarebbe costata qualche bel bigliettone di mancia. Mario Lino sbottò. Pensò che avrebbe dovuto tornare lì a piedi nell’ora più calda, presenziando alla conferenza stampa sfinito da continue promesse non mantenute. Il tutto perché un sindaco strafottente e pomposo s’era fatto bello con due vecchi arrivati da chissà dove e ai quali doveva chissà quali favori o riconoscenze. E allora mosse. Entrò di scatto dalla porta non custodita. Sentì pulsare più di qualche vena tra il collo e la fronte.
“Se mi è permesso – esordì sbattendo dietro di sé lo stipite, e spaventando non poco i tre presenti – faccio i miei complimenti al Signor Sindaco e a questi due illustri sconosciuti sicuramente dignitari di un potere a me sconosciuto. Complimenti per aver appena ucciso un bel mucchietto di sogni, di un ragazzo che avrebbe voluto fare qualcosa di importante per sé e per gli altri, che magari un giorno sarebbe stato immortalato qui in questa sala!”. Intanto, il vigilante era entrato sbigottito. E i tre astanti continuavano a guardarlo a bocca aperta. “Ne ho piene le tasche dei vostri giochi di potere, di gente che sbafa le ricchezze della nostra città, quando fuori c’è chi nuota nel fango e può godere solo del fetore della propria fatica”. Si era intanto avvicinato alla finestra mentre tutti gli altri lo schivavano indietreggiando.
“Non voglio certo annoiarvi con tutte le mie invettive. Vi dico solo che qui dentro io avrei dovuto assistere a una conferenza stampa. E invece non la vedrò mai perché il mio sogno finisce qui, da questa finestra!”. Col braccio fece roteare un paio di volte la piccola cartelletta: conteneva il suo notes, le sue penne, una copia del giornale, un fax stropicciato. E i suoi sogni. Volarono via tutti insieme dalla finestra ad abbracciare i ruderi dei Fori Imperiali. “Ecco il mio modo di diventare immortale – disse Mario Lino uscendo dalla Sala. Nessuno lo chiamò, nessuno lo riprese. Poiché nessuno parve darsi una spiegazione per quel gesto. In fondo, era solo un ragazzo che sognava di scrivere e che invece aveva deciso di riprendersi la sua vita ed il suo tempo.
Carola scese di corsa le ampie scale della redazione. S’affannò ancora, avanzando per qualche metro dentro Via del Corso, ma non lo vide. Annalisa invece era affacciata alla finestra della stanza del Direttore. Dava proprio sulla grande Via e potevi lambire con lo sguardo anche i gradini della Basilica dei Santi Ambrogio e Carlo. Insomma, poteva sperare di fermarlo ancora. Ma non lo riconobbe e a nulla sarebbe valso gridare il suo nome, con tutto quel caos ed il trambusto di auto e persone. Evidentemente Mario Lino aveva già percorso parecchia strada verso Piazza Venezia. Carola tornò su lentamente, dispiaciuta di non aver potuto dare la notizia al suo giovane collega. Dispiegò meglio la velina, arrivata poco prima via fax dall’Assessorato allo Sport del Comune di Roma. E la lasciò alla segretaria di redazione, nella prima scrivania dopo il portone d’entrata. “Questo era per Mario Lino – disse alla ragazza – puoi consegnarglielo appena fa ritorno qui?”.
La giovane accolse l’invito con la solita giovialità. E sbirciò, come sempre, il testo del foglio. Recitava esattamente così:
“La prevista conferenza stampa in programma per oggi alle ore 12,30 nella Sala Protomoteca del Campidoglio è stata posticipata alle ore 14,30. La Sala è stata richiesta in ultim’ora dal Sindaco in persona per un impegno di cortesia. Saranno graditi ospiti infatti il papà e la mamma della nostra sfortunata concittadina Marta Russo, ai quali tutti noi rivolgeremo il nostro cordoglio per la loro dolorosissima nonché assurda perdita. Scusandoci ancora per l’imprevisto, salutiamo cordialmente”.

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